Call Center, lo schiavismo del terzo millennio. Il caso di Taranto

Delle condizioni di lavoro nei call center se ne parla già da tempo. Considerati spesso come una forma di schiavismo, rappresentano un fenomeno le cui reali proporzioni sono sconosciuti alla maggioranza della popolazione.. Un’indagine riportata sul Fatto Quotidiano ci aiuta a capirne di più.

L’indagine è stata condotta a Taranto, teatro già del dramma dell’Ilva, ma la sensazione è che la fotografia scattata dal giornalista valga anche per il resto dell’Italia.

Iniziamo parlando della paga. Dire che sia da fame è un eufemismo. In media, i telefonisti vengono pagati 5 euro lordi l’ora (dunque poco più di tre euro), ma questa cifra può essere raggiunta solo a fronte del raggiungimento dell’obiettivo minimo, che impone al lavoratore di stipulare almeno un contratto ogni 14 ore. Nel peggiore dei casi, a lui spettano solo 2,5 euro.

Gli orari di lavoro sono in genere di quattro ore (per via della formula del part time) ma, a detta di tanti, lavorarne otto è davvero impossibile. L’attività è infatti faticosa ma soprattutto alienante.

Un altro problema grave riguarda la stipula dei contratti di lavoro. Vengono firmati spesso in bianco, pena il licenziamento. Il lavoratore nella maggior parte dei casi non sa cosa firma e si ritrova ad accettare condizioni umilianti. Come quella che, in un call center della periferia tarantina, impone di aspettare 31 giorni di lavoro effettivi per ricevere una paga di soli 300 euro.

Il call center è considerato lo schiavismo del terzo millennio. E, alla luce di questi dati, non si fatica a capire perché.